Tennis e mental coaching: c’è modale e modale

Spesso per ritrovare la determinazione necessaria, basta cambiare il modo di parlare a noi stessi. Se sappiamo come farlo. Ad esempio, facendo attenzione ai verbi modali

A qualsiasi livello – dal professionista all’amatore – ci sono periodi in cui si fa molta fatica, a livello mentale, a rispettare i propri piani di allenamento. Son quei periodi in cui per mettere le scarpe da running ed andare a correre o per preparare la borsa e recarsi in palestra o al campo da tennis bisogna fare appello a tutta la propria forza di volontà. Tanto che ad un certo punto può capitare che venga da chiedersi: ma perché sforzarsi così tanto? Una domanda che spesso contiene implicitamente un rischio: quello di “mollare”. Che a livello amatoriale o agonistico più basso potrebbe significare esattamente quello, cioè rinunciare del tutto ai propri allenamenti. Mentre a livello agonistico più alto può magari voler dire rallentare un po’ i propri ritmi. Il risultato però alla fine è lo stesso: l’obiettivo iniziale, piccolo o grande che fosse, non lo si raggiungerà più.

Ma prima di arrivare a questo punto, che poi può portare a scatenare tutta una serie di emozioni negative (sensi di colpa, frustrazione, delusione, addirittura vergogna) che rendono quella rinuncia ancora più deleteria per la propria autostima, magari c’è qualcosa che si può fare. Chiaramente, soprattutto se questo comportamento è ripetuto, ci si può confrontare con con un professionista, con un mental coach. Ma magari si può fare già un passaggio per conto proprio. In primis, facendo attenzione a come si parla con se stessi.

Il metamodello è uno strumento della PNL che ha l’obiettivo di comprendere il funzionamento dei pensieri nella mente delle persone, andando ad analizzare le strutture delle loro esperienze. È stato il primo modello linguistico studiato da Richard Bandler e John Grinder, i fondatori della PNL, basato sui principi della grammatica trasformazionale di Chomsky e sviluppato osservando il modo in cui lavoravano i famosi psicoterapeuti statunitensi Virginia Satir e Milton Erickson. Il metamodello (chiamato anche “linguaggio di precisione”) si occupa dei meccanismi trasformazionali che le persone utilizzano nel proprio linguaggio. Tali trasformazioni cancellano, distorcono o generalizzano le informazioni che trasmettiamo. Perché lo facciamo? Innanzitutto per rendere la comunicazione più rapida ed efficace. Se infatti ci chiedessero, ad esempio, di descrivere la nostra ultima partita di tennis e non cancellassimo alcune informazioni, dovremo descrivere ogni movimento fatto da ogni singola parte del corpo dalla prima palla presa in mano sino alla stretta di mano finale all’avversario: non finiremmo più… Si tratta pertanto di meccanismi indispensabili a livello comunicativo. Ma allo stesso tempo, se sono inconsapevoli, possono diventare rischiosi e poco funzionali per noi, dato che c’è il pericolo di identificare la realtà oggettiva con la realtà da noi percepita, quella che viene chiamata in PNL il nostro “modello del mondo”. Da qui il famoso presupposto PNL che la mappa (il modello del mondo) non è il territorio (la realtà oggettiva), che vuole evidenziare proprio questo rischio.

Il metamodello è un insieme di domande finalizzate ad approfondire ed a specificare la struttura profonda dell’esperienza, ovvero la rappresentazione sensoriale della realtà. Dato che non si può guidare una persona all’interno della propria mappa (che solo la persona conosce), questa tecnica consente di guidarla nel chiarire la sua esperienza interna e a far emergere le possibili soluzioni al suo problema, che si trova nella sua rappresentazione soggettiva della realtà, cioè nel suo modello del mondo. È uno strumento molto utile ogni qualvolta ci sia da definire degli obiettivi, in modo che siano ben formati, da dare o raccogliere informazioni precise, da individuare le strategie di azione più adeguate in relazione a specifiche situazioni.

A cosa serve tutto questo preambolo nel nostro caso, ovvero per evitare di “mollare” il nostro programma di allenamenti e di conseguenza rinunciare al nostro obiettivo? Ci serve perché nel metamodello, nell’ambito del processo di generalizzazione, c’è il modello degli operatori modali, derivante direttamente dalla linguistica della grammatica trasformazionale. Ed è proprio agli operatori modali, che si suddividono in operatori di necessità e di possibilità, che bisogna fare attenzione.

Esempi di operatori modali di necessità sono le frasi “devo allenarmi assolutamente oggi” oppure “devo fare ancora questo esercizio”. Semplificando, possiamo dire che gli operatori modali di necessità, che usano il verbo servile dovere, implicano una presupposizione: che ci siano delle regole che bisogna seguire. Facciamo quindi attenzione al loro uso. Questo modello, che spesso usiamo in maniera inconscia e involontaria, è infatti potenzialmente sabotante, perché è come se creassimo implicitamente qualcosa che ci ingabbia. Ed ecco che per sentirci liberi, per uscire dalla gabbia inconscia, una soluzione è non fare le cose che diciamo di dover fare.
In italiano per gli operatori modali di possibilità si usano i verbi potere o riuscire, che traducono i diversi significati del verbo originale inglese can. Sono esempi le frasi “non posso giocare a quel livello” oppure “non riesco a servire in kick” o anche il “posso già immaginare come andrà la partita oggi”. Presuppongono una scelta che non c’è. Ed anche la mancanza di una scelta diventa qualcosa che ci ingabbia. Con la stessa possibile conseguenza di prima: se rinunciamo, ci sentiamo – inconsciamente – liberi.

Il metamodello utilizza le domande per andare a scardinare le convinzioni limitanti che spesso alla base dell’utilizzo degli operatori modali. Ma se questo è un lavoro più profondo che va fatto con un mental coach, c’è qualcosa che grazie alla conoscenza di questo modello possiamo fare da soli: cambiare le parole che diciamo e che ci limitano inconsciamente. Facciamo un esempio, che in realtà è un esercizio da provare assieme, utilizzando gli operatori modali di necessità. Una persona descrive così la sua giornata: “Oggi devo alzarmi alle 6.30 perché devo andare a correre. Poi devo rientrare a casa per le 7.30, devo fare la doccia, devo mangiare qualcosa per colazione e poi devo uscire. All’ora di pranzo devo riuscire ad andare in palestra. Poi stasera devo assolutamente fare una cena veloce perché poi devo andare all’allenamento al Tennis Club”. Proviamo a metterci nei panni di questa persona e ripetiamo mentalmente le frasi appena lette. Che sensazioni ci provoca pensare alle nostre giornate di allenamento in questo modo? Ci viene l’ansia solo a pensare a quello che ci aspetta? Siamo stanchi solo ad immaginare quanta forza di volontà ci vorrà per adempiere a tutti quei “devo”? Quei “dover fare” ci creano un senso di repulsione? Ecco, se avete provato queste o altre sensazioni spiacevoli, capirete perché molto probabilmente l’inconscio cercherà di mettere i bastoni tra le ruote…

Cosa possiamo fare se siamo tra quelle persone che usano molto gli operatori modali di necessità? Possiamo “ristrutturare” la nostra realtà o meglio, il modo in cui la rappresentiamo. In primis a noi stessi. Nel nostro esempio significa andare a sostituire il verbo modale dovere e vedere come cambia la nostra rappresentazione della realtà. E di conseguenza come cambiano le nostre sensazioni. “Oggi ho deciso di alzarmi alle 6.30 per andare a correre. Così poi arrivo, mi faccio una bella doccia ed una abbondante colazione ed esco con la piacevole sensazione di aver già fatto qualcosa per me. Poi a pranzo aggiungo una sessione in palestra e la sera dopo cena riesco anche a farmi la mia bella oretta di allenamento al Tennis Club”. Ripetiamo ora mentalmente queste frasi. Come ci fanno sentire? Sono sensazioni diverse rispetto a prima? Molto probabilmente ci sentiremo carichi e vogliosi di cominciare le attività che abbiamo pianificato, vero?

Come abbiamo visto, la realtà – nel nostro esempio un giornata in cui sono pianificati tre allenamenti – è la stessa, ma se a parole la rappresentiamo in maniera diversa, la viviamo in maniera completamente diversa. Molto probabilmente per la persona che la rappresenta utilizzando le frasi che avevamo visto inizialmente arrivare a fine giornata completando tutto il piano prefissato sarà mentalmente (e quindi anche fisicamente) molto più faticoso. Con il conseguente rischio di mollare al primo ostacolo, che peraltro a livello inconscio sarà molto probabile farà di tutto per creare… Sia chiaro, per cambiare il modo in cui ci rappresentiamo la realtà ci vuole impegno. Anche perché probabilmente scopriremo che questo modo di esprimerci lo replichiamo in molti ambiti della nostra vita, è per noi un’abitudine. Un’abitudine che è bene cercare di cambiare.

A proposito: sono altrettanto rischiosi i i verbi fraseologici come “provare a”, “cercare di”, sebbene per un motivo diverso (ebbene sì, quei “provare l’esercizio” e “cercare di cambiare” erano messi lì apposta per arrivare a questo punto). “Domani provo ad alzarmi alle 6.30 per andare a correre” evita di ingabbiarci, ma ci espone ad un altro rischio: non dichiarando apertamente che vogliamo fare qualcosa, non prendiamo un impegno con noi stessi. Il che, inconsciamente, rende più facile rinunciare alla prima difficoltà. E alla fine siamo di nuovi lì: abbiamo mollato.
“No! Provare no! Fare o non fare! Non c’è provare!” diceva infatti il maestro Yoda in Guerre Stellari, redarguendo severamente il giovane Luke Skywalker per come stava per approcciarsi ad un esercizio durante l’addestramento per diventare un guerriero Jedi.

Il mental coach Alessandro Mora, uno dei maggiori esperti italiani di PNL e collaboratore di Richard Bandler, suole dire che “Non è ciò che dici ad alta voce a fare la differenza, è ciò che sussurri a te stesso”. Cominciamo allora a sussurrarci le parole giuste.

 

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